6 LUGLIO 2020
L’esperienza di Laboratorio Escapes
“Il nostro percorso è iniziato nel 2013, da una giornata di studi per confrontarsi – due anni dopo le rivolte arabe – tra quelli che si occupavano di rifugiati. Ora sembra strano, ma all’epoca non eravamo in tanti: operatività nel campo dell’accoglienza, assistenza legale, diritto d’asilo, ma non c’era molto dal punto di vista della ricerca scientifica. Non era un tema centrale per l’accademia. Eravamo pochi, giovani, non strutturati e quindi con difficoltà nel raccogliere fondi. Ci siamo voluti mettere insieme, abbiamo voluto strutturarci in un laboratorio permanente.”
Chiara Marchetti, docente di Sociologia delle relazioni interculturali, è tra le fondatrici del Laboratorio Escapes, Centro di Ricerca Coordinato dell’Università degli studi di Milano “La Statale”. Dopo quel convegno, che precedette di pochi mesi la tragedia di Lampedusa del 2013, nacque un luogo di ricerca e confronto per un insieme multidisciplinare di soggetti che si occupano di migrazioni forzate per ricerca, studio, attivismo, volontariato o professione.
Le conferenze annuali del Laboratorio Escapes sono oramai un appuntamento importante per chi si occupa di questi temi.
“Dalla fine del 2013 il Laboratorio ha mantenuto un grado di informalità e di scambio continuo tra sociologi, storici, antropologi, politologi, filosofi della politica e altri, per lavorare nella dimensione della complessità. Oggi siamo circa 60 membri, con profili e provenienze differenti. Nell’accademia siamo sempre stati orientati a quel che si definisce la terza missione della ricerca scientifica: la sfida – spesso incompiuta – di costruire saperi non solo accademici, che che siano connessi con la società dove avvengono i processi che si studiano.”
A maggio 2020 hanno aderito formalmente 55 persone singole e 12 organizzazioni: a queste si aggiunge una vasta e fluida rete transnazionale di persone interessate, connesse e amiche che scambiano idee, informazioni e supporto. Escapes, come viene indicato nella presentazione, “si propone di assumere la categoria delle migrazioni forzate problematizzandone il significato e la portata, considerando come parte del proprio campo di ricerca anche, ad esempio, le forme di resistenza ai confini, le situazioni di guerra e/o crisi umanitaria che sono spesso all’origine di movimenti migratori, le vittime di tratta. A tutto questo si intende guardare non solo dalla prospettiva degli studi sulle migrazioni, ma anche da quella dei diritti, della cittadinanza e delle forme di appartenenza.”
Dopo sette anni di lavoro, si può iniziare a tracciare un bilancio di questo lavoro interdisciplinare, tra ricerca e connessione con la società e gli attori del settore del diritto d’asilo e dei rifugiati.
“In questi anni in tanti hanno iniziato a occuparsi di rifugiati e il tema da marginale è diventato centrale – spiega Marchetti – a noi interessa restare specifici, mettere a fuoco come è cambiato negli ultimi anni questo mondo e come si è complessizzato il discorso asilo e migrazione e come negli ultimi anni si sia diffusa una lettura ambivalente. Proprio le ambivalenze, le zone grigie, sono quelle sulle quali ci siamo concentrati per il convegno di quest’anno. Le politiche di esternalizzazione e di controllo, la repressione, norme in Italia in tema di accoglienza, i processi di resistenza dei rifugiati nelle comunità. Nella politica e nel discorso pubblico si sono insinuate delle letture e delle terminologie per definire i fenomeni che ha reso più difficile fare una critica sociale di quello che avviene. Abbiamo voluto riflettere su come l’azione delle ong in Libia, i salvataggi in mare, ad esempio, fermo restando il principio dell’aiuto, si concretizzino: a chi spetta il dovere di questi interventi? Dovrebbe farlo lo Stato? E dopo i salvataggi cosa accade? Quale è il confine tra biopolitica dei corpi e umanitario? Critichiamo i centri di accoglienza in Libia, ma dove sarebbero queste persone senza quelle strutture? Si è passati dal dominio dei diritti a una sorta di meritocrazia dell’aiuto. A causa della pandemia, il convegno del 2020 è diventato una call online. Abbiamo scelto di pubblicare (consultabili a questo link) degli interventi brevi, degli spunti di riflessione su questi temi. Per certi versi, considerati i tempi della ricerca, questa situazione ci ha permesso di riflettere su alcuni temi in tempi rapidi.”
Tra gli obiettivi del Laboratorio, ci sono stati – fin dal principio – quelli di “Riconoscere l’importanza di un approccio multidisciplinare e promuovere un dialogo e una collaborazione feconda tra studiosi delle diverse discipline.
Mantenere uno scambio vivo e di reciproca contaminazione, pur preservando l’indipendenza della ricerca scientifica, nei confronti del terzo settore, dei soggetti impegnati direttamente nell’accoglienza e nell’integrazione.
Dedicare particolare attenzione al ruolo che possono assumere i titolari di protezione e più in generale le persone di origine straniera, soprattutto nella direzione di un contributo alla riflessione critica.
Assumere un ruolo di osservazione vigile e critica nei confronti del mondo politico e dei media.
Mantenere vivi i contatti tra gli studiosi e gli studenti interessati alle migrazioni forzate e far circolare le informazioni.”
Come sono andate queste dinamiche di lavoro?
“Sono molti gli operatori che vogliono chiavi di lettura non solo operative”, spiega Marchetti, “anche perché molti operatori lavorano come operatori sociali dopo percorsi di formazione di altro livello, in ingranaggi che finivano per coincidere poco con il quadro teorico e sentivano il bisogno di uno spazio di lettura critica. Da questo punto di vista, per il Laboratorio, si è creata una rete molto ricca. In generale, per noi, il 2020 è un anno di svolta e lavoreremo nel 2021 su questi temi.
Il coinvolgimento della società civile è andato molto bene, con tanti casi di co-progettazione, formazioni per operatori. Rispetto al coinvolgimenti di rifugiati ci sono due aspetti: da un lato abbiamo privilegiato questa come una componente del progetto, con al centro la soggettività metodologica della ricerca: rifugiati e ricercatori hanno lavorato assieme, anche docenti universitari. Rispetto a un ruolo attivo dei rifugiati, c’è ancora da lavorare, ma negli ultimi due anni sta maturando anche al livello di crescita una generazione di rifugiati che bisogna essere pronti a intercettare.”
Rispetto ai media e alla politica? “In questi anni abbiamo assistito a un reciproco legame circolare media – politica”, spiega Marchetti. “Un certo discorso politico, non solo per i contenuti, ma per le modalità, si è caratterizzato per semplificazione e aggressività. Per noi che fin dal principio vediamo la complessità come risorsa, non è positivo. Su temi come la sicurezza, si è generato un rimbalzo mediatico trasversale, non solo tra coloro che sono su posizioni ostili, ma in generale.
Un panorama uniforme, con dei distinguo, ma complessivamente il discorso pubblico è diventato omogeneo su certi temi. Il giornalismo – nella maggior parte dei casi – ha faticato o scelto di non proporre o indagare immaginari diversi e più complessi. Si è saldato un cerchio pericoloso, nonostante il buon lavoro di alcune realtà giornalistiche non tradizionali”, conclude Marchetti.
di Christian Elia