#BorderTales – Il dottor Dimitris

21 DICEMBRE 2020

Sull’isola di Lesbo, curando i migranti

“Questi anni, per me, sono indimenticabili. Mi hanno cambiato come uomo e come medico. Cambia il tuo modo di guardare le cose, l’importanza che gli dai. Questi anni hanno cambiato la mia vita.”
Dimitris Patestos è un medico, ma da anni ormai si occupa di vite in fuga. Nato e cresciuto a Lesbo, infatti, i migranti – che per molte persone sono una categoria di numeri senza volto – sono diventati i suoi pazienti.

“Per quello che riguarda me, in realtà, questa storia inizia nel 2004. Ero un giovane specializzando, lavoravo in ospedale, nell’isola dove sono nato. Ogni sera, già allora, arrivavano 30, 40 persone al giorno. Passando dal pronto soccorso, li visitavamo, esami del sangue, lastre, per un quadro clinico di base. Dopo la visita, prendevano il loro documento della polizia greca, e continuavano il loro viaggio”, racconta Dimitris. “Nel 2007 è stato aperto il primo campo sull’isola. Anche quella era una ex caserma, come poi si è continuato a fare Andavamo noi da loro, per le visite mediche. Ricordo come fosse oggi che per me fu uno choc: vivevano in 1000, 1500 persone – a seconda dei periodi – in condizioni incredibili. Tutti insieme, donne, uomini e bambini. Nel mezzo delle strutture passavano i canali di scolo, una situazione inaccettabile. Quelle immagini mi hanno segnato, bisognava fare qualcosa.”

Per Dimitris l’occasione arriva nel 2015, in piena crisi dei rifugiati. La sua volontà di essere medico in prima linea, dopo un’esperienza importante con l’epidemia di Ebola in Sierra Leone, lo aveva riportato sulla sua isola, dove con una grande organizzazione non governativa (Médecins du Monde), inizia a lavorare nel campo che era nato nel 2013.

“La situazione era molto grave: al porto di Mitilene arrivavano anche 7mila persone al giorno. Facevamo quello che potevamo. Ti trovavi di fronte tutto il male del mondo, in forme diverse. Potevano essere malati cronici, spesso bambini, che si portavano addosso le disuguaglianze economiche di questa Terra. Banali patologie che ormai, in Occidente, non comportano nessun problema e che invece se sei nato in paesi come l’Afghanistan ti segnano. Altri ancora avevano i problemi ortopedici e dermatologici contratti lungo il viaggio. E le torture, i traumi. Storie drammatiche, dove vedevi anche delle differenze: gli africani avevano segni di violenze brutali, mentre i siriani sembravano torturati da professionisti. E le donne, con il loro peso degli sturpi. Immaginate di essere in una stanza, circondati, da poliziotti e altre persone, mentre dovete raccontare la vostra storia, le umiliazioni subite, le violenze. Tanti non riuscivano a farlo, era una situazione dura. Altri mentivano, certo, perché è stato creato un sistema dove solo con le menzogne si va avanti: lo farei anche io.”

Dimitris è un cittadino di Lesbo, come quelli che i media raccontano come nemici dei migranti. In tutti questi anni quanto è cambiata la situazione sull’isola? Come viene vissuto il suo impegno dai suoi concittadini?
“Lesbo è sempre uguale a sé stessa, non cambia. Fino al 2015 era diverso solo il fatto che le persone non si fermavano sull’isola e ripartivano subito. C’è una minoranza di estremisti, ci sono sempre stati, fomentati da interessi esterni all’isola. E poi ci sono gli isolani, con il loro carattere schivo, a volte chiuso, ma che non hanno nulla contro i migranti. Molti di loro, anzi, li hanno aiutati e li aiutano, come fa la gente delle isole, con cose concrete. Solo che non ne possono più delle promesse della politica europea, di Atene e così via. La maggioranza della popolazione di Lesbo comprende i migranti, ma non sopporta più l’idea che nessuno risolva questa situazione e che si continuano a fare gli stessi errori – racconta Dimitris – A me sembra assurdo che non si riesca a risolvere con misure semplici questa situazione, come se non ci fosse la volontà di farlo. Si spendono tanti soldi, lasciando i locali e i migranti in una situazione drammatica. Pensate al nuovo campo temporaneo, dopo l’incendio del vecchio. Era chiaro a tutti che era una soluzione assurda, tutti sapevamo che il vecchio poligono militare era un posto inadeguato, per l’inquinamento del terreno e per la posizione. Eppure si è andati avanti lo stesso, spendendo denaro, senza risolvere la situazione.”

In questi anni sono tante le vite che Dimitris ha incontrato. Sono tante le storie che ricorda. “Ogni giorno, per anni, incontri persone che vengono da un’esperienza terribile. Difficile raccontarne qualcuna, ma di sicuro c’è sempre qualche persona che continui a ricordare, come il ragazzo afgano che non aveva nulla, ma mi ha offerto una sigaretta, o il ragazzo africano che mi mostrava i suoi video su YouTube, quando in Camerun teneva i suoi concerti rap. Aveva un piede fratturato, si appoggiava a un bastone, ma se avevi la pazienza di ascoltare la sua storia sorrideva. E poi due sorelline, siriane. Le vedevi subito, nell’inferno che c’era sul molo, durante lo sbarco, che erano di una famiglia benestante. Mi avevano colpito, vestite come per andare a un matrimonio. Parlavano benissimo inglese, la mamma insegnava alla Facoltà di Medicina di Damasco prima della guerra. E vederle là, impaurite, separate dai genitori durante le cariche della polizia contro gli assembramenti dei migranti, le ho chiamate e gli ho chiesto di tradurre per me con i siriani che non parlavano inglese. Ricordo ancora come erano felici di quel gesto, tornarono a sorridere. Questo è quello che cerco di raccontare sempre, anche ai miei amici: queste persone partono dalla guerra e fino a quando non avranno raggiunto il loro obiettivo non si fermeranno davanti a nulla. Lo faremmo anche noi nelle loro condizioni, solo che non lo ricordiamo.”

di Christian Elia