14 LUGLIO 2020
Ha gli occhi grandi e commossi Barthelemy mentre racconta il suo incredibile viaggio in bicicletta dal Burundi alla Tanzania.
Ripercorrendo con la mente la sua infanzia nella città natale di Kagunga, i ricordi delineano, sorprendentemente, la fotografia delle rive del Lago Tanganika, tra i bambini che giocano e gli ippopotami immersi nelle acque dorate del tramonto. Ricorda la Chiesa bianca e blu del suo villaggio, l’eco della voce del pastore dal pulpito assolato, gli abiti colorati dei suoi amici, il volto orgoglioso della sua ragazza il giorno della laurea all’università. Ricorda di essere stato molto felice in quel tempo passato ed ancora profondamente vivido nella sua mente.
Era l’aprile del 2015 quando, a causa dello scoppio di violenti scontri pre-elettorali in Burundi, oltre 10.000 persone furono costrette ad intraprendere un massiccio esodo verso la Tanzania cercando salvezza proprio attraverso il confine del lago della sua infanzia interrotta. Una sera, due uomini armati irruppero nella sua casa, lo colpirono ripetutamente sino a tramortirlo e rubarono tutti i suoi averi. Barthelemy, al risveglio, capì che doveva andare e che non c’era più futuro nella sua terra. Senza sapere dove in realtà si sarebbe diretto, sistemò la sua bicicletta, raccolse in uno zaino qualche indumento, la sua Bibbia, il telefono cellulare, 80 dollari e salutò la sua famiglia e la sua ragazza, rassicurando e promettendo che avrebbe scritto loro una volta raggiunta l’ignota destinazione.
Con la paura ormai incagliata nello stomaco ed il profondo sconforto per dover abbandonare quel che restava della sua esistenza, iniziò a pedalare. Tutto intorno erano urla e spari ma Barthelemy pedalò, pedalò per giorni interi, nascondendosi fra alberi ed edifici per non farsi catturare, sino a quando non riuscì ad attraversare il confine con la Tanzania. Ebbe così inizio la sua nuova vita, una vita da rifugiato, da un campo profughi all’altro, dormendo su pavimenti di fango, mangiando mais diluito con acqua perché troppo poco, cantando e pregando per un riparo, per l’acqua e per la sicurezza sino al trasferimento nel Campo di Nyarugusu, dove vivono 150.000 rifugiati provenienti dal Burundi e dalla Repubblica Democratica del Congo. Qui l’umidità entrava nelle ossa, la pioggia inzuppava gli indumenti e scivolava fra le lenzuola in plastica, i pidocchi infestavano ogni cosa. Dopo due mesi di desolazione e sconforto, sorretto solo dalla fratellanza instaurata con i suoi nuovi amici di sventura, Barthelemy fu trasferito nel Campo di Nduta, a nord- ovest della Tanzania, passando dal dormire sotto teli di plastica a vivere sotto una tenda, sino a costruire, con legno secco e fango, una casa vera per sé ed una piccola Chiesa.
Nel 2016, anche la sua ragazza lasciò il Burundi intraprendendo il suo stesso viaggio. Ricongiunti e miracolosamente ritrovati nel Campo di Nduta si sono sposati nella Chiesa da lui stesso costruita ed oggi hanno un bellissimo figlio di nome Goodluck Tena.
Storie a lieto fine come quella di Barthelemy, così come quella di Musa Juwara, nato 18 anni fa in Gambia ed attuale calciatore di Serie A del Bologna, approdato con un barcone nel 2016 sulle coste siciliane, raccontano ed insegnano ancora tanta speranza e resilienza.
Barthelemy sa di essere stato più fortunato di molti altri che con lui hanno condiviso centinaia di chilometri nell’incertezza totale del domani. Da 5 anni vive da rifugiato in un campo profughi e, spera ancora di poter tornare in Burundi, nella sua casa, dalla sua famiglia. Nonostante la vita gli abbia tolto tanto, non ha rinunciato ai suoi sogni ed alla sua dignità perché, come egli stesso dice: “non siamo malvagi, siamo esseri umani proprio come te, che vivono e sentono, con paure e sogni come qualsiasi altro uomo. Quello che è successo a me, può accadere a chiunque, nessuno sceglie di essere un rifugiato ed io chiedo solo di non essere giudicato per questo”.
Restano, purtroppo ad oggi, ancora critiche ed incerte le condizioni nei campi profughi in Tanzania, il cui Governo è intenzionato a rimandare a casa, con dei rimpatri forzati, oltre 200.000 rifugiati del Burundi di cui 70.000 nel campo di Nduta.
Nel settembre del 2019, tale progetto è stato interrotto grazie all’intervento risolutore dell’UNHCR che ha riscontrato una grave violazione dei diritti umani di tutte le persone presenti nei campi, posto che ai rifugiati, è riconosciuto il diritto di asilo. Il Governo locale, per ovviare a tale richiamo ha, pertanto, deciso di procedere vietando qualsiasi attività commerciale all’interno dei campi, costringono così, di fatto, molti profughi ad abbandonarli volontariamente perché impossibilitati a produrre delle proprie risorse, indispensabili per rendersi indipendenti dalle donazioni e dagli aiuti spesso insufficienti.
Anche nel Burundi la situazione è tutt’altro che rassicurante ed il Paese versa in un clima estremamente instabile. L’UNHCR ha confermato che mensilmente centinaia di persone fuggono ancora dal Burundi e ha chiesto agli Stati confinanti di non chiudere le frontiere e di concedere asilo alle persone che necessitano protezione. Il contesto è talmente teso, che persino il rappresentante speciale del segretario generale dell’ONU in Burundi, Michel Kafando, ha gettato la spugna e, rassegnando le proprie dimissioni, ha spiegato, il 30 ottobre scorso al Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU che, l’escalation di intolleranza politica e violazioni dei diritti civili è fuori controllo. Il governo avrebbe cercato di correre ai ripari, tentando di instaurare un dialogo con tutti i partiti, gli amministratori locali e le forze di sicurezza ma, per la popolazione civile non c’è ancora pace.
di Eleana Elefante