28 OTTOBRE 2020
Nei porti si arriva e si parte. I porti sono territori di confine per eccellenza. Sono confini da prima che esistessero le frontiere, le dogane, gli stati. I porti sono un confine, per entrare o per uscire, anche solo dal mare.
Il porto di Ancona ha una storia lunga e ricca di storia. Ha visto passare dominazioni, mercanti, viaggiatori, fuggitivi e sognatori. Oggi vede passare anche tante persone in fuga da miseria e guerra, a volte nascosti in container o sotto dei tir che vengono da lontano. Viaggi duri, che finiscono tra le braccia dei medici che trovano persone in condizioni gravi, distrutte da viaggi senza cibo e acqua. Uno degli ultimi è stato un cittadino afgano, 29 anni, ritrovato in pessime condizioni su un traghetto dopo essersi probabilmente imbarcato a Patrasso.
Il porto di Ancona ne ha viste passare tante di storie e di vite. Un libro recente, Il porto sequestrato, a cura del gruppo Faro sul Porto, che fa parte della Onlus Ambasciata dei diritti delle Marche, ripercorre la storia della rete metallica che è stata costruita negli ultimi tempi attorno al porto. L’arrivo di afghani, iraniani, pakistani nascosti sui traghetti che partono dalla Grecia ha generato una rete, ma non risolve il problema delle persone che scappano dalle guerre e che avrebbe l’opportunità di chiedere diritto d’asilo.
Eppure il porto di Ancona, dove transitano più di un milione di passeggeri all’anno, tra i più importanti per il traffico merci dell’Adriatico, è un luogo che racconta come il viaggio, o la fuga, la partenza e l’arrivo, sono parte della storia dell’umanità.
La vita stessa di Ancona è legata al suo porto, quando la popolazione dei Dori vi si fermò nel 387 A.C. proprio per quell’insenatura naturale della quale capirono le potenzialità. Ancona deve al porto il suo stesso nome, Ankon in greco, ‘gomito’, dalla forma del riparo naturale per le navi.
Dalle sue banchine sono passati i Greci e i Romani. Questi ultimi lo ampliarono, con l’imperatore Traiano, ricordato dall’Arco a lui dedicato. L’architetto di quell’arco, Apollodoro, veniva da Damasco, in Siria. Come alcune delle persone in fuga dalla Siria di oggi.
Le reti non fermano la storia, le reti non fermano gli scontri e gli incontri. Come l’attacco dei Saraceni dal mare nel IX secolo, che saccheggiarono la città, o come la partenza di San Francesco d’Assisi, che nel 1219 partì alla volta dell’Egitto proprio da Ancona, mentre infuriavano le Crociate.
Il porto di Ancona non ha mai smesso di vivere e di accogliere persone e merci, lingue e culture. Anche durante i conflitti mondiali, la Prima e la Seconda guerra, tra bombardamenti e attacchi militari, navi cariche di soldati all’andata e di profughi e feriti al ritorno. Il porto, nel 1944, venne quasi distrutto dalla violenza della guerra. Proprio per questo il porto sa che significa la guerra, la fuga, la paura.
Nell’estate del 1992, monsignor Tonino Bello lancia un appello perché si dia un concreto contributo alla pace e alla giustizia in Bosnia con un’iniziativa non violenta. L’ex Jugoslavia, che per anni con Ancona si era scambiata turisti e merci, era sprofondata nella guerra. L’organizzazione dei “Beati costruttori di Pace”, dopo mesi di preparativi, riunisce 500 pacifisti che decidono di partire da Ancona il 6 dicembre del ’92. Obiettivo: arrivare a Sarajevo, sotto assedio da nove mesi, il 10 dicembre in occasione della Giornata internazionale dei diritti umani.
Nonostante le numerose pressioni da parte del governo italiano per farli desistere, partiranno da Ancona 496 persone, tra i 18 e i 72 anni, provenienti da otto diversi paesi. Portavano medicine, cibo e un messaggio di pace.
Oggi, come allora, il porto di Ancona è ancora al suo posto, ad aspettare che le reti lascino il posto ai ponti, perché il confine torni a essere incontro di storie e non si chiuda mai di fronte al dolore degli altri.
di Christian Elia