7 AGOSTO 2020
“Esistono confini naturali, come i fiumi, i mari, le montagne. Poi ci sono quelli fatti dall’uomo: fortezze, muri, checkpoint Charlie a Berlino e simili. Ho visto i 99 muri di Belfast, ho visto i resti del muro di Berlino. A Mostar i muri non ci sono. C’è il Boulevard, però, che è un confine, una strada che divide la città. Per me i confini sono barriere, margini, limiti, soglie, ma anche sfide, con tanta voglia di passare dall’altra parte. Non concepisco le frontiere, per me il mondo è un paese. Immagino il mondo con un passaporto unico.”
Dario Terzic sostiene che “vivo a Mostar in esilio. È un esilio che ho voluto io.” Giornalista e scrittore, ricercatore universitario in giornalismo, responsabile culturale del Centro per la Cultura di Mostar. La sua città. Che non è sempre stata un rifugio sicuro.
“Quando parlo di me mi definisco ‘uno di Mostar’, senza dire altro, sono nato qui. Dopo aver finito gli studi in giornalismo a Sarajevo, nel 1988, ho cominciato a lavorare per delle testate cittadine, sia radio che magazine. E poi è arrivata la guerra. Da giornalista, in quella situazione, ho sempre cercato di restare fedele a un’idea di legalità. Dopo il riconoscimento della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina ho scelto di lavorare per i media che rispettavano il nuovo paese. Così, nonostante le mie origini croate, mi sono opposto alla politica nazionalista. Con la divisione della città nel 1993, dopo tanti problemi, sono finito nella parte bosniaca. Son sempre rimasto, tranne un breve periodo in Italia, iniziando a lavorare per Radio X, che faceva parte del Centro culturale di Mostar. Per anni sono stato redattore di questa radio che va ricordata come l’ultima radio mista (nel senso dei gruppi nazionali) nella città. Purtroppo, nel 2016, anche questa radio è stata spenta. Oggi come oggi nella parte bosniaca non abbiamo nelle istituzioni politiche nessun dirigente croato e viceversa. La divisione è confermata per l’ennesima volta. Come giornalista, ricercatore e attivista culturale ho lavorato tanto sulle città divise, la mia tesi di dottorato era sul ‘colore’ come fattore del conflitto nelle città divise.”
Mostar città divisa. Mostar e il suo magnifico ponte vittima della guerra anni Novanta, croati e bosgnacchi (musulmani di Bosnia). Ma raccontare Mostar rischia di essere un catalogo di stereotipi per chi non la conosce davvero. Come racconteresti Mostar a chi non la conosce o la visita come turista, senza aver modo di entrare in contatto con la quotidianità della città?
“Mostar è una città bella e maledetta”, risponde Dario. “Una città molto affascinante, senza dubbio. Con un fiume meraviglioso, il più freddo del mondo (la Neretva), con un ponte famosissimo, ma una città difficile da capire, difficile da vivere. Divisa tra le nazioni, i poteri, le debolezze, unita in una confusione totale. Mostar è sempre una città divisa, con una maggioranza bosniaca sulla sponda Est e una croata nella parte Ovest, con i pochi Serbi rimasti divisi in entrambe le zone. Una città addormentata, quando si parla dei cittadini, dell’azione civile, di ribellione. Molti sono senza lavoro. Quelli che fanno parte dei partiti nazionalisti riescono a vivere bene. I posti di lavoro sono legati a logiche clientelari, rapporti di business basati sulla corruzione. Non si va avanti e per questo è sempre colpa degli ‘altri’, della guerra (finita però ormai da 26 anni), del comunismo e così via. Con la guerra è stata cambiata anche la composizione della popolazione della città. È arrivata gente che ha portato nuove subculture che non avevano niente in comune con lo spirito della Mostar antica. Manca la massa critica, necessaria per avere una città aperta, una città ribelle come era Mostar anni fa. I giovani sono scoraggiati, sfiduciati. Non vedono l’ora di scappare, trovare un lavoro e un futuro migliore in un altro paese. Ho paura che alla fine Mostar sarà una città dei vecchi e di mafiosi.”
Tanti problemi, tanti simboli, che da un lato rendono Mostar celebre in tutto il mondo, ma che a volte implicano un peso da portare. Una storia ingombrante. Mostar, però, non è solo questo. E può insegnare tanto, che si parli di guerra o, come accade oggi in Bosnia-Erzegovina, di migrazioni.
“Quando si parla di migrazioni, la storia di Mostar può insegnare tanto, in particolare rispetto alle identità che si sovrappongono, invece di combattersi. Non ho certezze, non so quanto la storia riesca a insegnare, però la storia di Mostar potrà offrire fatti, argomenti per un’analisi” – racconta Dario – “Noi di Mostar la migrazione la conosciamo in due direzioni: molti mostarini che durante la guerra sono stati espulsi, sono stati cacciati via, sono andati via per sempre dalla loro città natale. E poi c’è un’altra migrazione, quella che vediamo negli ultimi anni, con tanti migranti che dall’Oriente, in cerca di una vita migliore, si sono fermati a Mostar. Per quanto riguarda la migrazione dei mostarini, dal 1993, abbiamo storie diverse, a prescindere dai paesi nei quali le persone sono riuscite ad arrivare. Non era lo stesso essere un immigrato in Italia o un immigrato in Svezia. Io sono arrivato in Italia nel giugno del 1995. Conoscevo la lingua, per me era più facile inserirmi, trovare un lavoro. Nella cooperativa per la quale lavoravo, a Bologna, mi dicevano che come emigrato potevo avere 30 mila lire al giorno, ma il Comune offriva una versione molto diversa: secondo loro avevo diritto a un aiuto solo se mi trovavo in un alloggio collettivo. Mia sorella, invece, era andata in Svezia nel 1993 e un anno dopo aveva un appartamento suo, con tutte le spese pagate. Le cose cambiano a seconda del paese dove ti trovi: se è un paese ricco o non lo è. La Bosnia-Erzegovina è un paese povero. Molta gente non ce la fa ad arrivare a fine mese e i migranti che si fermano qui non hanno molto da sperare. La maggior parte di loro dichiara di voler solamente proseguire il loro cammino verso ovest, Francia, Germania, e che in Bosnia – quindi anche a Mostar – si trovano solo per necessità. Ci sono persone che li capiscono, ma anche tanti che pensano che non si tratti di migranti scappati dalla guerra, ma di ‘falsi profughi’ che vengono in Europa in cerca di lavoro. Ci sono molti malintesi, reazioni inappropriate, anche da parte delle autorità. C’è chi dice che la migrazione rappresenti una nuova onda di islamizzazione nel paese, che dietro ci sia il crimine organizzato, il terrorismo…un po’ di tutto. La pandemia del Coronavirus ha attirato l’attenzione su altre problematiche, ma con la migrazione dovremo ancora confrontarci”.
Anche perché, dal 2015 a oggi, sono cambiate molte cose e le opinioni in Bosnia-Erzegovina, come a Mostar, sono molto diverse. “Dipende dalla giornata, dipende a chi lo si chiede” – racconta Dario – “La parte della Federazione abitata dai croati i migrati non li vuole proprio. Lo stesso per la Republika Srpska, la parte della federazione a maggioranza serba. Così la maggior parte di loro si trova nella zona della federazione a maggioranza bosniaca- musulmana, come nella parte Est di Mostar, verso Sarajevo, Bihać e altri centri. All’inizio della crisi migratoria c’è stato un po’ di movimento umanitario per aiutarli con cibo, vestiti. Ma era la prima ondata e poi è cominciato l’oblio. Ci sono alcune NGO che si sono fatte carico di questa faccenda. Non so come sia la percezione della gente di Bihać, che è molto più vicina alla frontiera croata e dove è possibile vedere dal vivo questi profughi maltrattati dalla polizia croata. Noi, a Mostar, siamo abbastanza lontani e la nostra opinione si crea soprattutto attraverso i media, ma intanto siamo impotenti rispetto alle violenze alla frontiera tra Bosnia-Erzegovina e Croazia. È l’Europa che dovrebbe reagire, la Croazia fa parte dell’Unione Europea. La Bosnia è un terreno molto fertile per la corruzione ed è molto probabile che tanti soldi destinati ai migrati finiscano nelle tasche delle mafie locali. Sul campo si fa quel che si può. Alcuni progetti e iniziative della LDA di Mostar, un’analisi completa sulle crisi migratoria presentata a Bruxelles, iniziative per aiutare i migrati del centro collettivo Salakovac (a nord di Mostar), alcuni progetti interessanti come workshop teatrali nei quali sono stati coinvolti singoli, ma anche intere famiglie di migranti. L’obiettivo di questa iniziativa era di far avvicinare i migranti alla comunità locale, creare legami, conoscenze; farli, almeno per un po’, uscire da quello che è un mondo chiuso e limitato come un centro collettivo.”
Perché, come racconta Dario, anche la fuga nella vita dipende da dove riesci ad arrivare.
di Christian Elia