23 NOVEMBRE 2020
«Tutto è iniziato quasi per caso. Ero là, c’erano tutte quelle persone in difficoltà, volevo dare una mano. Mi sono presentata al Comune, mi ero offerta come volontaria, ma sembrava che non fosse possibile. Il mio superiore, quando ha saputo che avevo intenzione di rendermi utile, mi ha chiamata. In seguito il campo venne posto sotto il controllo dello Stato, quindi come per tutti i bambini residenti in Francia l’educazione diventava obbligatoria, gratuita e laica. Il mio dirigente scelse la mia scuola a Grande-Synthe per accogliere i bambini del campo e così hanno iniziato a venire in classe.»
Ed è così che Adeline Markwitz, insegnante di Grande-Synthe, nei pressi di Dunkerque, Francia settentrionale, inizia a incontrare ogni mattina il mondo intero che arriva nella sua scuola. Voleva andare ad aiutare nel campo alle porte della città, chiamato La Linière, alla fine ha potuto rendersi utile nella sua quotidianità. Insegnante da 21 anni, da sette preside. Un campo citato spesso come esempio per accogliere in modo umano i migranti in cammino, gestito dall’amministrazione comunale e da associazioni specializzate. E Adeline, come ogni insegnante, non ha studenti preferiti.
«Sono tanti i bambini che ricordo, tante le storie che ci hanno colpito: bimbi piccoli che sono arrivati felici che non sentivano neanche il peso della barriera linguistica, ricordo un bambino che è stato prelevato da scuola dai servizi sociali perché sua madre era appena stata portata in una casa di accoglienza per donne maltrattate, o bambine che hanno fatto amicizia a scuola con un semplice sguardo, e ragazzi che sono riusciti a diventare amici semplicemente giocando a calcio.
Una bambina di nove anni, Ala, era particolarmente commossa quando recitava davanti ai suoi compagni di classe una piccola poesia che aveva imparato quando, al suo arrivo, non parlava affatto il francese. Un’altra bambina, Sara, ha dovuto essere ricoverata in ospedale per un problema cardiaco e io sono andata dalla sua famiglia, mi sono offerta di portarli da lei. Sono ancora in contatto con loro, stanno bene, sono in Germania. E i poster appesi all’ingresso della scuola portano ancora i nomi di alcuni dei bambini che sono venuti da noi. Non ho chiesto ai ragazzi delle loro storie personali. A volte ci raccontavano il viaggio che avevano fatto, che suscitava immediatamente l’ammirazione di tutti, incontravo le famiglie per registrare i bambini, ma non ho cercato di chiedere a loro più di quello che chiedo a tutte le famiglie. Solo in un caso è stato diverso, perché quando il campo è bruciato, una famiglia era stata ospitata in una casa del progetto Emmaus e mi sono impegnata a portare i bambini a scuola e a casa ogni giorno.»
Adeline racconta e ricorda un’esperienza che è stata straordinaria per lei come per i suoi piccoli alunni. Che è stata, in fondo, straordinaria per tutta Grande-Synthe. Il campo, nel 2017, è stato distrutto da un incendio.
«Quella situazione era preferibile a quella attuale. Era molto più facile organizzare l’aiuto e l’accompagnamento dei minori e potevamo occuparci della salute delle persone. Non dico che fosse tutto semplice, ero consapevole della difficoltà e della precarietà di quel luogo, ma mi sono sempre sentita la benvenuta là.» Anche se non per tutti è stato così.
«Non è semplice. Molti residenti non capiscono perché i migranti abbiano scelto di stabilirsi nella loro città, piuttosto che in altre città vicine. Sono diffidenti, soprattutto perché ci sono molti uomini soli che camminano a tutte le ore per le strade, parlando una lingua che i francesi non capiscono. Tuttavia, non ci sono particolari problemi in città dal loro arrivo, a parte i problemi con i rifiuti.
Alcuni genitori degli alunni avevano espresso preoccupazione e persino ostilità all’accoglienza dei bambini migranti nella nostra scuola. Abbiamo comunicato molto con loro per spiegare il nostro approccio e questo ha cambiato molto il modo in cui i genitori guardano ai migranti, ai profughi, ai richiedenti asilo. Come sono cambiate le reazioni dei nostri studenti francesi. Conoscendo i bambini “di altri paesi” hanno imparato molto sulle loro condizioni di vita e li hanno considerati come piccoli eroi. Invece di considerarli come minacce o vittime, li ammiravano, e si portavano a casa le loro impressioni. Alcuni genitori sono poi venuti ad aiutarci, accogliendo bambini durante le vacanze o portando dei vestiti per loro.»
L’incontro, la conoscenza, la vicinanza: potrebbe essere questa la ricetta per vincere le difficoltà dell’integrazione?
«I diritti umani sono spesso violati in Europa quando si tratta di accogliere i rifugiati. Ci dovrebbe essere una riflessione e un’azione collettiva da parte dei paesi europei per assicurare che ciascuno di essi si assuma le proprie responsabilità e garantisca un’accoglienza dignitosa – dice Adeline – Non si tratta di dare asilo a tutti, ma di garantire i diritti fondamentali a tutti i presenti sul territorio europeo e di fornire loro le informazioni necessarie.»
Adeline continua a fare la sua parte. «Oggi, insieme ad un’altra insegnante e alla figlia del mio capo, ho fondato un’associazione per aiutare queste persone. Quello che più ci ha animato all’inizio di questa associazione è stato ampliare la nostra esperienza con i bambini, ma c’erano già molte azioni organizzate da associazioni britanniche. Allora ci è sembrato più efficace agire per gli uomini soli perché per loro c’erano poche cose, a parte il cibo e gli aiuti medici. Abbiamo iniziato organizzando le distribuzioni di abbigliamento e aiutandoli nelle procedure amministrative. Il numero crescente di migranti e rifugiati e la nostra esperienza sul campo ci hanno portato a scegliere di sostenerli come possiamo, perché tutti abbiamo bisogno di aiuto quando siamo in difficoltà.»
di Christian Elia