11 GIUGNO 2019
Enzo, il pescatore poeta di Lampedusa
“Lampedusa è quel posto che riesce a farti piangere sia quando scendi dalle scale dell’aereo appena arrivi che quando le sali per andare via. Piangi per la sua bellezza unica, ma anche per quel suo essere, da sempre, sola, per certi versi un po’ abbandonata.”
Enzo Billeci, lampedusano doc, è un pescatore. La sua vita, la sua isola, la sua barca. Un mondo intero, in un fazzoletto di terra tra le onde. Fino a quando il mondo è arrivato a Lampedusa.
“Prima del 2013 era un avvistamento continuo di barconi in mare, quasi ogni giorno. Poi, dopo il naufragio del 2013, che ha scosso un po’ le coscienze dell’Europa, i controlli si sono spostati più a sud dell’isola, perché noi pescatori lampedusani abbiamo licenza di pesca entro le 40 miglia marittime, mentre i salvataggi avvengono a 80, 90, 100 miglia dall’isola adesso. A me è capitato tante volte: si avvistavano queste barche, ci portavamo sottobordo e chiamavamo la Guardia Costiera che interveniva nel minor tempo possibile. Li prendevamo in custodia, segnalavamo eventuali emergenze, se c’erano persone che stavano male, se la barca imbarcava acqua, le condizioni del mare e così via. E i ricordi sono tanti…restano con te. Alcuni più di altri.
Una volta, a 40 miglia a sud-est di Lampedusa, proprio al limite, della nostra zona di pesca, avvistiamo un barchino. Ricordo che soffiavano 13-14 nodi di maestrale, in senso opposto rispetto alla rotta verso l’isola. A bordo c’erano circa 45 persone: tutti fradici. A prua c’era una donna incinta, ogni volta che un’onda colpiva la barca era sommersa da litri d’acqua. Era completamente bianca per il sale che le si era rappreso sulla pelle. Un’immagine che non dimentico, stringeva il cuore. Mentre aspettavamo la Guardia Costiera italiana, è arrivata la Guardia Costiera tunisina. Ricordo i loro volti, i loro sguardi. C’era tutta la rabbia e la delusione del mondo. ‘Non vogliamo andare in Italia, vogliamo andare in Europa!’. Erano disperati. Poi per fortuna ci siamo chiariti e hanno capito che non li avevamo chiamati noi. E un’altra volta, con mare clamo, un gommone giallo sgangherato, 40 persone a bordo. Uno si è buttato in acqua, tentando di salire a bordo da noi. Tanta tensione, tanta paura, avevamo le reti in mare, era molto pericoloso. Un momento di panico, ma è finita bene, nonostante ore di lavoro perse. Non rimpiango nulla, però, lo rifarei. Perché non sono mai stato capace di girarmi dall’altra parte. E non capirò mai chi riesce a farlo. Se per la strada vedi un incidente ti fermi, se non per umanità per non essere accusato di omissione di soccorso, o di essere un pirata della strada. E in mare? Perché non dovrebbe essere così! In mare è peggio, non ci sarà l’auto successiva a fare quello che non hai fatto tu.”
Il 3 ottobre 2013, invece, non è finita bene. “Quel giorno non lo dimenticherò mai. Ho sentito tutto via radio e quando sono arrivato sul posto, tornando a Lampedusa, hanno tirato su l’ultimo naufrago. Non si può dimenticare. Pensavo davvero che le cose sarebbero finalmente cambiate: se non cambiavano dopo quello che era accaduto, quando? Altrimenti davvero vuol dire che vogliamo la fine dell’umanità. E invece…i cambiamenti vanno e vengono, come i governi.
All’epoca qualcosa cambiò, si interveniva vicino alla Libia, poi i respingimenti fino ad arrivare ad oggi, dove appunto si è persa l’umanità. Quando sento dire ‘lo sapevamo anche prima che c’erano i lager’ mi domando come sia possibile. Le torture, gli stupri, la morte, eppure si riempiono la bocca col fatto che non ci sono più sbarchi. Abbiamo solo allontanato la realtà di 20 miglia: non sbarcano perché li facciamo morire là”.
Perdendo l’umanità, violando qualsiasi legge del mare. “Sono leggi eterne per noi, non hai bisogno di impararle da qualcuno che te le insegni. Le vivi ogni giorno in mare. Io alle scuole medie facevo già i compiti di scuola in barca, la sera, aiutando mio padre che comandava la stessa nave che oggi comando io dopo che lui è andato in pensione. Ci sono cresciuto a bordo, ma a scuola andavo bene! Sia chiaro! In mare, però, si imparava la vita e l’umiltà. Il mare ti insegna a star tranquillo, sereno, pronto a tutto. Perché ti ricorda che sei piccolo, ogni momento, con la sua pace, la sua vastità, i suoi silenzi e tutta quella libertà. Io dico sempre: il mare dà una libertà che la terra sconosce (non sa)”.
Tutti questi anni, vissuti in prima linea, vanno raccontati. Ed Enzo, sentendosi parte di un periodo storico che prima o poi verrà riguardato con occhi diversi, ha sentito di dover ricordare. Scegliendo la poesia. Con le sue poesie, nel corso di questi anni, ha vinto premi e riconoscimenti. Ma come è iniziato questo viaggio tra le parole?
“Ho iniziato, più o meno, quindici anni fa. Le parole vengono fuori da sole, appena mi fermo le metto su una pagina. Raccontano di me, di quel che è la mia vita. Per questo mare, questo posto, questa vita, appunto. Famiglia, migranti, turisti, l’isola, la pesca, il mare. Per lasciare un segno di questi anni che sto vivendo. Una memoria di quel che sta accadendo a tutti noi.”
E che, ormai, è nella memoria e nella vita di Lampedusa. “Qui si vive bene, con tutte le sue contraddizioni. Accanto alle infrastrutture che mancano, a tanti problemi che andrebbero risolti, a cominciare dai comportamenti degli stessi lampedusani, ci sono la spiaggia più bella del mondo, che è l’isola dei Conigli, il nostro è ancora un mare vivo, pescoso, che ci offre ogni giorno i suoi frutti, per la sua posizione l’acqua è unica, trasparente e cristallina, con un ricambio continuo e vivo.”
Un posto da sogno, accanto a una tempra della popolazione che non è comune. “Lo Stato, le autorità, qui si fanno vive solo per le tragedie, stanziando fondi, ma la gente è stanca. Dove sono quei soldi, come sono stati spesi? Ricordo il 2011, quando la gestione fu una follia. Oltre 10mila persone lasciate qui, su un lembo di terra. Da secoli Lampedusa è un punto di attracco, di ristoro, di pace, ma non poteva reggere una pressione simile. Migliaia di persone per strada, affamate, allo sbando e allo stremo. Poteva accadere di tutto. Noi lampedusani, dai pescatori alle nostre famiglie, ci organizzammo per sfamarli, perché capivamo quel che a Roma non capivano. Ed è un miracolo che non è successo nulla. Gli isolani son venuti fuori, con il loro spirito pratico e hanno gestito la situazione. Però bisogna dare delle risposte a questa comunità.”
Eppure il pensiero di lasciare Lampedusa non c’è mai stato. “Adesso no, assolutamente no, ma da giovane…per questioni di cuore ci ho anche pensato. Oggi son contento di non averlo fatto e di essere restato qui, su questa portaerei in mezzo al mare da secoli. Siam tre fratelli a far andare la barca, i miei due figli, di 29 e 25 anni, hanno scelto Milano e Roma. Hanno provato, durante le vacanze di scuola, la vita di mare. Ma hanno deciso che non fa per loro. È molto cambiata da quando ho iniziato io, la tecnologia ha reso molto meno faticoso il lavoro, dal punto di vista fisico. Ma per il resto, devi essere pronto: la distanza da casa, la stare in mare, non vedere la terra, non uscire la sera. È una scelta di vita. D’inverno si lavora poco poco, l’inverno è lungo, ma ci vivi lo stesso, il lavoro non manca. Però l’inverno, girare, girare e star fermi, dalla lunga l’isola diventa stretta. Posso capire la loro scelta, ma io resto qui, a guardare la vita dalla mia isola.”
by Christian Elia