9 NOVEMBRE 2020
Intervista a Marta Bellingreri di Alarm Phone: sei anni dalla parte dell’umanità
“La prima telefonata che ho ricevuto è arrivata mentre vivevo in Giordania. Per fortuna non è stato un caso drammatico, ma la ricorderò sempre. Perché fino alla nascita di Alarm Phone soffrivo; essendo sempre in giro per il mio lavoro non potevo essere parte di un collettivo in modo stabile, non riuscivo a sentirmi parte di qualcosa, mi mancava un pezzo della mia storia. In quel momento mi sono sentita parte di una grande famiglia euro-mediterranea, con attivisti dalla Tunisia a Berlino, dal Marocco a Manchester. Non importava dove fossi, potevo dare una mano. La telefonata più dura, invece, la ricordo ancora: gennaio 2016. Purtroppo non si sono salvati. Ed è drammatico sentire al telefono delle persone che chiedono aiuto, poi perdere i contatti, sapendo quello che sta per accadere o che è già successo. Restai 24 ore in totale black-out.”
A parlare è Marta Bellingreri, giornalista e ricercatrice. Fin dall’inizio è parte del progetto Alarm Phone, il numero +334 86 51 71 61 che imbarcazioni in pericolo o migranti sulle frontiere via terra in difficoltà chiamano per chiedere aiuto.
“Il progetto è nato tra il 2013 e il 2014, a seguito dei due tragici eventi dell’ottobre 2013: i naufragi terribili del 3 e dell’11 di quell’anno. In particolare per quello dell’11 ottobre, quando per sei ore consecutive le persone a bordo di una barca in difficoltà hanno chiamato le autorità italiane e maltesi che non hanno risposto: 250 persone annegate, di nazionalità siriana. Dopo quella tragedia è nata la domanda: cosa poteva cambiare? Quante vite si potevano salvare se ci fosse stato qualcuno che in quelle sei ore poteva essere avvisato da bordo per fare pressioni sulle autorità? Per un anno ci sono state una serie di assemblee di attivisti – che si conoscevano e si erano incrociati in altre reti tematiche sulla libertà di circolazione, sulla militarizzazione delle frontiere e sull’antirazzismo – tra Germania, Tunisia, Francia. L’11 ottobre 2014, esattamente un anno dopo la tragedia, il numero è diventato attivo e non si è mai più spento.”
Una linea attiva 24 ore su 24, 7 giorni su 7, con persone che si alternano in turni di 8 ore. Possono cambiare le persone di turno, ma il numero non si ferma mai. E da allora il progetto è molto cresciuto.
“Nei primi mesi non arrivavano molte chiamate – racconta Marta – poi è iniziato il passaparola, in particolare tra comunità di migranti. Ora siamo strutturati in tre zone di monitoraggio: Western Med, che copre la zona tra Marocco e Spagna e, in particolare negli ultimi mesi, la rotta tra il Senegal e le Canarie, Central Med, che copre le rotte dalla Libia e dalla Tunisia verso l’Italia e anche quella Algeria – Sardegna, e infine Aegean Sea, per la rotta Turchia – Grecia, ma a volte anche quella Libano – Cipro. In totale siamo almeno 80 persone che si alternano, ma si arriva anche a 120, con i nuovi che ricevono una formazione, tecnica e di azione. Quando riceviamo la telefonata, avvisiamo la Guardia Costiera competente, maltese, italiana, greca o spagnola, a seconda delle zone SAR interessate. Con la Guardia Costiera libica è diverso: tendiamo a non chiamarli, avendo noi una posizione chiara contro il fatto che i migranti vengono poi riportati nei centri libici, salvo situazioni particolari, con tutte le difficoltà del caso, anche se non parlano inglese e non rispondono.”
Alarm Phone ha tenuto memoria e traccia del suo lavoro di questi anni. Sul loro sito (clicca qui[link: https://alarmphone.org/it/) ci sono i dati, i report, le testimonianze e le storie raccolte in questi anni da i gruppi che al momento sono attivi in Marocco, Tunisia, Italia, Francia, Germania, Italia, Gran Bretagna, Spagna, Turchia. Oltre ai team, ci sono delle contact persons in Libia, Grecia e Algeria.
Dagli inizi, però, anno dopo anno le azioni di Alarm Phone si sono evolute e altre sono cambiate.
“Le chiamate cambiano, ad esempio nel 2019 arrivavano in maggioranza da Spagna e Marocco, nel 2020 dalla Libia. Sono tutte chiamate differenti: al confine Grecia – Turchia hanno whatsup, riescono a mandare messaggi vocali e coordinate, si tiene un contatto molto forte. Dalla Libia, invece, usano i thuraya, in mezzo al mare, non si sente nulla. E infine da Senegal e Marocco hanno vecchi telefoni, è molto difficile individuare la posizione, infatti abbiamo lanciato tempo fa una campagna per raccogliere smart-phone usati. E le cose, in generale, son cambiate tanto negli ultimi due anni con la criminalizzazione crescente della solidarietà. Io stessa ho avuto un profilo più basso, occupandomi meno delle telefonate e più dei report e delle traduzioni. E abbiamo cambiato la nostra comunicazione: prima non citavamo le nostre operazioni, ora si. Un media team lavora a questo, mentre un legal team lavora a raccogliere denunce di mancato soccorso per adire la Corte Europea dei Diritti Umani, perché bisogna reagire a questo clima.”
Un’esperienza, intensa profonda. A volte molto dura. “Ogni anno riusciamo a ritrovarci due volte, in giro, quest’anno – causa Covid – solo una, a settembre, a Berlino. Ed è la prima volta che non ho sentito il bisogno del supporto psicologico, perché è dura, il rischio è quello di sentirsi in colpa, di domandarsi se hai sbagliato, o potevi fare di più”, racconta Marta.
Che assieme a tutti quelli di Alarm Phone reagisce continuando a rendersi utile, aumentando anche l’impatto. “E’ nato il progetto From the Sea to the City, con la volontà di creare una rete di città accoglienti, per pensare anche oltre il momento dell’emergenza, che c’era già in Germania e ha iniziato in Italia, con Palermo e Napoli. E inoltre facciamo parte di quella che noi chiamiamo ‘flotta civile’, in coordinamento con le ong che lavorano in mare dove non ci sono mezzi istituzionali di soccorso, o che non si muovono.”
di Christian Elia