3 AGOSTO 2020
Intervista al progetto SOGICA – Sexual Orientation and Gender Identity Claims of Asylum
“Dall’inizio del progetto abbiamo lavorato ad avere il maggior impatto positivo possibile sulla vita delle persone. La ricerca può e deve dare il suo contributo. In questi anni abbiamo raccolto dati, realizzato interviste, creato focus group e tenuto osservazioni nelle corti giudiziarie in tre paesi: Italia, Gran Bretagna e Germania. Abbiamo studiato le esperienze in materia di richieste d’asilo in ragione dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere, partendo dalla considerazione che esistevano solo poche casistiche giurisprudenziali in materia.”
Cosimo Danisi, ricercatore presso l’Università del Sussex (Gran Bretagna) e docente di Diritto Internazionale presso l’Università di Bologna, è tra i ricercatori che hanno dato vita al progetto SOGICA – Sexual Orientation and Gender Identity Claims of Asylum, appena terminato, un team di ricerca coordinato da Nuno Ferreira, docente di Legge presso l’Università del Sussex, che comprende anche M. Dustin e N. Held, entrambe ricercatrici presso la medesima Università.
“Il nostro lavoro ha prodotto delle linee guida che abbiamo reso note su una piattaforma online che racconta tutto il lavoro svolto da Sogica e che sono emerse dalle oltre 150 interviste realizzate, tra Italia, Germania e Gran Bretagna, non solo a rifugiati e richiedenti asilo, ma anche a operatori delle ong e istituzioni, oltre che dall’osservazione del lavoro dei tribunali dei tre stati che analizzano richieste di protezione internazionale per questi motivi, tentando di capire come i giudici, in audizione, tendono a valutare e gestire questi casi. Che sono casi difficili da comprendere e, anche per questo, temevamo che ci fosse un livello più alto di respingimenti delle domande. Il livello di credibilità, le prove, gli stereotipi rispetto alle minoranze sessuali sono elementi di queste storie che le rendono particolarmente complesse. L’obiettivo era studiare la normativa europea e quelle nazionali, dando poi voce a chi fugge, provando a stilare delle raccomandazioni affinché si possa migliorare questo tipo di valutazione delle richieste”.
L’elenco delle raccomandazioni, anche quello disponibile online, le tante pubblicazioni, una conferenza finale che ha coinvolto più di ottanta esperti, le testimonianze video, sono il segnale di un lavoro svolto non solo con competenza, ma anche con passione. Dei tra casi studio, quale è la situazione italiana?
“Rispetto all’Italia, comparando la situazione attuale della gestione delle richieste di protezione internazionale per motivi di orientamento sessuale e identità di genere con l’Europa e gli altri due casi studio, abbiamo trovato una maggior predisposizione all’accoglimento di questo tipo di richieste, una maggior conoscenza della tematica, dovuta anche alle normative vigenti in Italia – spiega Danisi – dove nelle commissioni territoriali ci sono ancora esponenti dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr); personale formato che ha dato un modello su questo tipo di richieste, con le apposite linee guida numero 9, in applicazione della Convenzione di Ginevra. Durante la mia ricerca sul campo, in Italia, abbiamo notato che quando c’è personale Unhcr nelle commissioni queste richieste vengono gestite in modo più corretto, aiutando i commissari che non ne sanno molto sul tema. Anche a livello procedurale, se si sa prima che c’è un caso di questi, il giorno dell’intervista quel caso viene attribuito al commissario più competente in materia. Teniamo conto che molto spesso queste persone, quando arrivano, non sanno che possono chiedere protezione per le discriminazioni o le persecuzioni subite. Questo è un problema grave, perché gli accorgimenti del sistema italiano vengono vanificati senza una corretta informazione delle possibilità che ha il richiedente asilo. In generale, però, in Italia c’è più tutela, anche grazie a una giurisprudenza particolarmente progressiva: la Cassazione, nel 2012, ha riconosciuto che quando esiste una legge nel paese d’origine che criminalizza l’omosessualità, esiste persecuzione, senza bisogno per il richiedente di doverlo dimostrare. Questo non accade altrove in Europa, quindi per questi standard in Italia le cose vanno meglio. Anche sulla ‘credibilità’ della storia del richiedente protezione internazionale, ci sono sentenze in Italia che fondamentalmente dicono come non sia necessario provare la propria omosessualità. ÈE’ difficile. Quando sei perseguitato, magari solo perché nel paese di origine ritenevano che fossi omosessuale, non è necessario che tu lo sia per aver diritto a una protezione. C’è anche quel che non va in Italia, ad esempio i decreti sicurezza, che sulla protezione internazionale hanno riportato l’Italia indietro in generale e che hanno conseguenze specifiche anche per queste tipologie di richieste. Fin dal decreto Orlando – Minniti, che sostanzialmente eliminava la possibilità di ricorrere in appello, con l’introduzione della video registrazione delle testimonianze, si era reso più complesso il quadro generale. È molto difficile in generale raccontare la propria storia, specie se legata all’identità sessuale, senza un contatto diretto con chi deve decidere è molto peggio. Una delle riforme più insidiose è l’introduzione della ‘lista di paesi sicuri’, che non tiene affatto conto di come i cosiddetti paesi sicuri possano avere una legislazione discriminatoria per le minoranze sessuali. Ecco, una delle prime raccomandazioni emerse dal nostro lavoro è stata proprio quella di abrogare i decreti sicurezza, cosa che risolverebbe molte delle questioni che ci hanno fatto arretrare in questo senso.”
In linea di massima, durante la ricerca, è stato possibile stabilire – in termini percentuali – quante sono le richieste di protezione internazionale per orientamento sessuale e dell’identità di genere rispetto al totale?
“Anche quello della raccolta di dati certi, rispetto ai numeri, è diventata un’altra nostra raccomandazione: di base non vengono raccolti dati sul motivo della richiesta di protezione internazionale. È difficile sapere, in Italia in particolare, quante richieste vengono presentate per discriminazioni o persecuzioni dovute all’orientamento sessuale. Abbiamo chiesto ai ministeri competenti, all’Unhcr, oltre che alle commissioni territoriali i dati, ma se li raccolgono, in via informale, manca un quadro generale, anche perché non c’è un obbligo europeo in questo senso.
È difficile fare una stima, ma detto questo, per la prima volta, in Gran Bretagna si sono raccolte statistiche sperimentali e, a livello informale, parlando con giudici e membri delle commissioni territoriali, possiamo dire che non sono casi così rari: una stima attendibile è quella dal 5% al 10% del totale e non sono poche. Sono stime, cambiano con il periodo, e mancano dati scientifici obbiettivi, ma sono casi frequenti, questo è certo – spiega Danisi – ed è importante saperlo, perché ci sono molti stereotipi rispetto all’immaginario che elementi chiamati a giudicare possono avere in merito a questo genere di richieste. Dobbiamo pensare che quasi tutti i casi in Italia, a differenza di altre realtà europee, arrivano dal mare, magari dopo i traumi del periodo in Libia, dopo lunghi periodi nei paesi di provenienza passati a dissimulare la propria identità sessuale e non è facile per loro rispondere ai canoni che, in mancanza di preparazione specifica, le commissioni si aspettano di trovare.”
di Christian Elia